Un percorso giocoso e immersivo nell’arte contemporanea, un viaggio tra spazi che si trasformano, volumi attraversabili, trasparenze e riflessi che mettono in discussione i confini tra interno ed esterno, tra realtà e percezione. È questa l’esperienza proposta da Architetture Trasparenti, mostra che prende vita dall’8 giugno al 26 ottobre 2025 negli spazi monumentali di Villa Manin a Codroipo (Udine).

Il progetto nasce da una riflessione sul concetto di confine, inteso non come barriera, ma come soglia valicabile, passaggio fisico e mentale, stimolo per nuove modalità di esplorazione dello spazio. Alcune installazioni alterano la percezione degli ambienti, altre costruiscono architetture leggere da attraversare, mentre le opere all’aperto rendono incerto il limite tra spazio chiuso e aperto. I materiali impiegati – vetro, specchi, fili colorati, tessuti, luce, suono – invitano a esperienze sensoriali che superano l’idea tradizionale di architettura come spazio fisso, chiuso, opaco.
Curata dal direttore del servizio Erpac Guido Comis e da Linda Carello con Daniele Capra, e organizzata dall’Ente Regionale per il Patrimonio Culturale del Friuli Venezia Giulia (Erpac), la mostra si inserisce all’interno del programma “GO! 2025&Friends”, rassegna di eventi collegata a “GO! 2025 Nova Gorica – Gorizia Capitale Europea della Cultura”, che coinvolge l’intera regione. Le sedici installazioni selezionate si articolano in un percorso che inizia dalla barchessa di levante, prosegue all’interno del corpo gentilizio e si estende nel parco storico della villa, dove le opere dialogano in modo dinamico con l’architettura barocca e il paesaggio.


Tra i protagonisti della mostra spiccano figure storiche dell’arte contemporanea come Robert Irwin e Giulio Paolini, artisti affermati a livello internazionale come Jeppe Hein, Pae White, Petra Blaisse (Inside Outside) e Gabriel Dawe, insieme a presenze emergenti e significative del panorama italiano come Matteo Negri e Anna Pontel. Alcune installazioni – come quella sonora di Christina Kubisch – introducono anche una dimensione uditiva nello spazio, ampliando ulteriormente il coinvolgimento del pubblico.
Tre importanti ritorni rendono ancora più significativa questa edizione. Dan Graham è presente con Two-Way Mirror Pavilion, un’architettura in vetro e acciaio concessa in prestito da Egidio Marzona, figura di riferimento per il collezionismo internazionale e legato alla storia espositiva di Villa Manin fin dal 2001. Jeppe Hein, già ospite a Passariano nel 2004 con Appearing Rooms, propone oggi Double Ellipse, un labirinto specchiante allestito nel parco. Inoltre, Petra Blaisse con Inside Outside accompagna il visitatore con installazioni tessili che segnano l’ingresso e attraversano il cuore della villa. Le opere di Alberto Garutti e di Patrick Tuttofuoco infine, realizzate nel parco di Villa Manin già nel 2005 in occasione di un’altra mostra, sono state incluse nel percorso di Architetture trasparenti in quanto coerenti con il tema dell’esposizione.


“È un viaggio in cui lo sguardo e il corpo sono chiamati ad attraversare spazi che non sono mai ciò che sembrano”, osserva Guido Comis, direttore artistico di Villa Manin. “Un’esperienza che unisce alla dimensione estetica e concettuale anche un’intenzione ludica ed esperienziale. Non una mostra da osservare a distanza, ma un contesto da abitare, percorrere, vivere”.
Architetture Trasparenti è visitabile dall’8 giugno al 26 ottobre 2025, dal martedì alla domenica con orario continuato dalle 10 alle 19. Il biglietto intero è di 8 euro, ridotto 5 euro, gruppi 4 euro.
Per informazioni e prenotazioni: 0432 821258 – [email protected].
Tutti i dettagli sono disponibili sul sito ufficiale: www.villamanin.it.
Villa Manin – Piazzale Manin 10, Passariano di Codroipo (UD)
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Gli artisti e le loro opere in “Architetture trasparenti” a Villa Manin
a cura di Guido Comis e Linda Carello con Daniele Capra
Inside Outside è un collettivo fondato ad Amsterdam nel 1991 dalla designer e architetta Petra Blaisse.
La ricerca di Inside Outside – collettivo noto a livello internazionale per progetti negli spazi pubblici – fonde architettura, interventi sul paesaggio e design spesso servendosi di materiali tessili, elementi naturali e soluzioni spaziali flessibili, capaci di trasformare e modulare gli ambienti. L’installazione Welcome!, collocata lungo la barchessa che conduce all’ingresso della villa, impone ai visitatori di compiere un percorso a zig-zag attraverso tende di voile sospese tra le colonne e la parete. Il tessuto, su cui sono riprodotte architetture stilizzate che riprendono il disegno del colonnato d’ingresso, scompagina la nitida prospettiva della barchessa, moltiplica gli intervalli regolarmente ritmati degli archi e rende allo stesso tempo incerto il confine tra interno ed esterno. Welcome! è il benvenuto allo spettatore che, a partire da quest’opera affronta un percorso fra arte e gioco, immagini riflesse e occasioni di riflessione, prospettive vere e immaginate, incontri inaspettati e smarrimenti. L’installazione ……to the sixth dimension che occupa l’intero salone centrale di Villa Manin, amplifica fino a raddoppiarlo lo spazio grazie a un pavimento specchiante. Come suggerisce il titolo, l’opera apre lo sguardo – e le sensazioni – a una dimensione ulteriore, non misurabile con parametri convenzionali. Il pavimento restituisce allo spettatore l’impressione di avere non solo un soffitto sedici metri sopra la testa, ma anche altrettanti sotto i piedi. L’opera consente così di percepire visivamente dettagli spesso trascurati come gli stucchi, la struttura del ballatoio o l’intera volumetria della volta. E, nel contempo, lo specchio dà la sensazione di camminare fluttuando ludicamente nello spazio, sospesi a mezz’aria tra spinte ascensionali e abissi riflessi.
Gabriel Dawe (Città del Messico, 1973) vive e lavora a Dallas. Le opere della serie Plexus, tutte realizzate in relazione agli spazi cui sono destinate, sono al centro della ricerca di Gabriel Dawe. Ottenute con migliaia di fili colorati tesi nello spazio le opere trasformano l’architettura in scenari di luce e colore. Il termine Plexus, letteralmente intreccio, e in senso medico rete nervosa, evoca visivamente strutture di energia e luce.
Con un materiale semplice come il filo da ricamo, teso con precisione matematica Dawe dà vita a una struttura sospesa tra scultura e pittura, visibile e al tempo stesso intangibile. I colori si fondono in sfumature iridescenti che mutano con la luce e la posizione dello spettatore e hanno la capacità di mutare la percezione stessa
degli spazi che attraversano. Per la mostra Architetture Trasparenti a Villa Manin, ha realizzato Plexus no. 46: una trama sospesa e monumentale che, come un miraggio, da lontano sembra solida e palpabile, ma che man mano che ci si avvicina acquista la consistenza dell’arcobaleno.
Robert Irwin (Long Beach, USA, 1928 – La Jolla, USA, 2023). Al centro della poetica di Robert Irwin ci sono la luce e i suoi effetti spaziali e atmosferici. In Multiple Configurations #1 l’artista si sofferma sugli effetti dell’illuminazione su lastre verticali trasparenti di plexiglas di diversi colori, e dà vita a un’opera che appare come il modello di una moderna architettura in vetro. La scultura è composta da elementi alti oltre tre metri con base a L, T e a croce, collocati sul pavimento a distanze regolari secondo una precisa configurazione iscritta in un rettangolo. Esposta intenzionalmente presso le finestre della villa rivolte a sud, l’opera reagisce al passaggio della luce nelle diverse ore del giorno, ne filtra i raggi generando effetti che variano a seconda del grado di inclinazione del sole. In contrasto con la rimarcata geometria dell’oggetto Multiple Configurations #1 produce nel chiuso di una stanza effetti atmosferici e luminosi che si caricano di connotazioni emotive.
Jeppe Hein (Copenaghen, 1973), vive tra Copenaghen e Berlino. Jeppe Hein muove dall’arte concettuale e da forme minimaliste per realizzare opere che sollecitano la partecipazione del pubblico. La sua poetica si basa sull’interazione tra opera e spettatore e mira ad annullare la distanza tra arte e pubblico. Spesso, come nel caso di Geometric Mirror X, ricorre a materiali riflettenti, per sollecitare percezioni e coinvolgimento emotivo. Le sue installazioni incoraggiano l’esplorazione dello spazio, la riflessione sull’identità e sulle relazioni fra persone in chiave ludica, ma profonda. L’opera confonde chi ci è vicino, con chi è oltre l’oggetto, chi vediamo riflesso e chi scorgiamo attraverso le aperture. Nel contesto della villa, caratterizzato dal frequente ricorso a decorazioni illusionistiche – si vedano le sale delle prospettive affrescate a trompe l’oeil e alla sala della tenda caratterizzata da elementi di stucco aggettanti – Geometric Mirrors X diviene una forma di aggiornamento del gusto per l’inganno ottico che caratterizza la dimora dei Manin già nel Settecento. Come già Geometric Mirror X che abbiamo incontrato all’interno della villa, anche Double Ellipse si serve di semplici elementi geometrici e di materiali riflettenti per sollecitare il coinvolgimento del pubblico. L’opera è composta da parallelepipedi verticali di metallo di altezze diverse, lucidati a specchio. Infitti nel terreno a distanze regolari essi descrivono due archi concatenati che accolgono lo spettatore e ne frazionano l’immagine confondendola con quella del contesto. Porzioni di ciò che l’osservatore ha di fronte si alternano a ritagli di quello che sta alle sue spalle in un continuo rimando visivo che, reagendo al movimento del visitatore all’interno dell’opera, assume una dimensione quasi cinematografica. Pur basandosi su di una geometria semplice l’opera ha la capacità di disorientarci come un labirinto. Lo smarrimento non è fisico, ma mentale in quanto Double Ellipse contamina vertiginosamente percezione di sé, dell’ambiente e degli altri visitatori.
Janusz Grünspek (1979 Germania). Come suggerisce il titolo di questa serie, Drawings in Space, Janusz Grünspek lavora al confine tra disegno e scultura, ricrea oggetti familiari come tavoli, sedie, utensili, utilizzando semplici listelli di legno incollati. Le opere, dall’aspetto di disegni tridimensionali sospesi nello spazio, hanno la dimensione dei manufatti che rappresentano, ma sono cavi e suggeriscono la loro presenza al visitatore piuttosto che imporsi attraverso volumi conclusi. Le sculture di Grünspek contrappongono visivamente idea e oggetto, forma e funzione, presenza e assenza. Sono realtà evanescenti che, ponendosi al confine tra visibile e invisibile, sembrano voler rivelare ironicamente i principi di funzionamento, i meccanismi alla base degli oggetti fatti dall’uomo, come se togliendo la pelle delle cose fosse possibile rivelarne i misteri.
Matteo Negri (San Donato Milanese, 1982) vive e lavora a Milano. Piano Piano Bellagio fa parte di una serie di opere di Matteo Negri costituite dall’intersezione di due piani in metallo e vetro. Le lastre di vetro sono dotate di pellicole dicroiche, il cui colore cambia in base al punto di osservazione, così che lo spettatore è indotto a muoversi attorno all’opera per verificarne le caratteristiche. Allo stesso tempo filtrando la luce l’opera contamina lo spazio in cui è collocata. Grazie ai riflessi e alle trasparenze l’immagine del pubblico e lo stesso contesto diventano permeabili e instabili, frammentati e cangianti come fossero osservati attraverso la lente di un caleidoscopio.
Giulio Paolini (Genova, 1940). La ricerca di Giulio Paolini ha per oggetto gli strumenti, le tecniche e le forme della rappresentazione. Contemplator enim è costituito da sette elementi di plexiglas ritmati da profili incisi di colonne che si snodano nello spazio come un paravento. Sui due elementi che aprono e chiudono la successione è rappresentato un valletto in abiti del Settecento. Il ragazzo pare reggere un oggetto, forse una tela dipinta, da offrire allo spettatore. Lo spazio dell’oggetto è in realtà forato, l’immagine è mancante.
Con Contemplator enim Paolini mette in scena l’inganno della rappresentazione. L’immagine che è sottratta alla vista ci restituisce uno scampolo di realtà; alla finestra su di una realtà fittizia rappresentata da un quadro dipinto si sostituisce una vera finestra, mentre è la trasparenza dell’opera stessa a rendere incerto il confine fra creazione artistica e contesto reale.
Pae White (Pasadena 1963), vive e lavora a Los Angeles, Stati Uniti. La ricerca di Pae White fonde arte visiva, design e architettura, dissolvendo i confini tra le discipline grazie all’uso di una grande varietà di materiali.
Il suo linguaggio unisce leggerezza e complessità, evocando riflessioni sul tempo e sul potenziale nascosto degli oggetti quotidiani trasfigurati poeticamente. Le sue grandi installazioni sono caratterizzate dalla presenza di elementi collocati con un preciso ordine geometrico, che danno la sensazione di un volume immaginario in contrasto con la struttura rigida degli spazi. In Love with Tomorrow è realizzata interamente in carta e filo. L’opera si impone come un corpo sospeso, al tempo stesso leggero e monumentale, mentre il titolo – innamorati del domani – suggerisce un sentimento di apertura verso il futuro, alla ricerca della meraviglia, in intenzionale contrapposizione con la natura effimera dei materiali utilizzati.
Christina Kubisch (Brema, 1948) vive e lavora a Berlino. La ricerca di Christina Kubisch coniuga interesse per la musica, le arti visive e le interazioni tra suono e spazio. Molte sue opere sono veri e propri ambienti definiti più ancora che da elementi materiali, dai suoni che li percorrono e che lo spettatore è invitato a esplorare. Come suggerisce il titolo, La serra è un’installazione ispirata agli ambienti in cui vengono coltivate le piante. L’opera presenta un complesso sistema di cavi sospesi dall’alto. Dai fili si irradiano tracce audio in cui registrazioni di suoni naturali, versi di animali e elementi atmosferici, si mescolano a campi elettromagnetici prodotti da computer, trasmettitori digitali, sistemi di illuminazione. Lo spettatore munito di cuffie a induzione magnetica è isolato acusticamente dalle altre persone e dal contesto, ma è la presenza stessa del pubblico a determinare intensità e combinazione dei suoni che vengono percepiti. La serra è dunque allo stesso tempo uno spazio di isolamento e di incontro, di smarrimento e di scoperta.
Anna Pontel (Aiello del Friuli, 1974) vive e lavora a Udine. Corpo inclinato è il profilo in metallo, in dimensione reale, dell’appartamento abitato dall’artista, appoggiato su elemento di arredo. L’opera è stata ideata da Pontel nei mesi dell’epidemia di Covid, nel periodo di confinamento all’interno della propria casa. L’installazione – quasi un disegno tridimensionale nello spazio – evidenzia la distribuzione e i volumi delle stanze di una casa che lo spettatore può percorrere in prima persona. L’opera è una riflessione sugli spazi abitati, sui confini e i limiti più o meno permeabili entro cui gli uomini si trovano a vivere, ma anche sulla precarietà delle situazioni, suggerita dalla posizione inclinata della struttura. Corpo inclinato è in rapporto con la sala in cui è accolta. Il disegno tridimensionale realizzato dall’artista dialoga con scorci gli architettonici a trompe-l’oeil sulle pareti: la sagoma svuotata dell’appartamento di Anna Pontel si contrappone alle prospettive piene eppure illusionistiche dipinte sui muri.
Jesús Rafael Soto (Ciudad Bolívar, 1923 – Parigi, 2005). Fra i protagonisti dell’arte cinetica del XX secolo, Jesús-Rafael Soto ha dedicato la sua ricerca alla creazione di opere che fondono dimensione pittorica e scultorea e coinvolgono direttamente il visitatore. Soto mette così in discussione il concetto tradizionale di manufatto artistico statico a favore di un’opera attiva in costante mutazione. Pénétrable BBL Bleu è una struttura costituita da centinaia di sottili tubi in PVC blu sospesi. Volume e colore non sono destinati a essere osservati dall’esterno, ma possono essere percepiti con il corpo, modificati nella forma e nella densità dalla presenza propria e di altri visitatori. Come un canneto sospeso, l’opera esposta all’interno del parco della villa, partecipa del mutare delle condizioni atmosferiche che fanno vibrare le foglie, mutare i riflessi dell’erba, stormire le fronde, pur mantenendo nel colore e nella forma un aspetto del tutto innaturale, di manufatto umano.
Dan Graham (Urbana, USA, 1942 – New York, USA, 2022). Il lavoro di Dan Graham abbraccia arti visive e architettura. Nella sua ricerca è ricorrente la riflessione sul doppio, la trasparenza, la relazione tra spettatore e opera d’arte. L’opera Two-way Mirror Pavilion è costituita da due prismi a base triangolare concentrici e aperti. L’installazione – a cavallo tra scultura e architettura urbana – è parte della serie Pavilions, strutture percorribili dalle geometrie essenziali che Graham ha realizzato sin dagli anni Ottanta. Frequente in queste opere è il ricorso a specchi semiriflettenti, in cui i riflessi si sommano all’immagine di ciò che sta oltre la lastra. La scelta del materiale è suggerita a Dan Graham dall’osservazione degli spazi urbani caratterizzati dall’uso sempre più frequente del vetro e dall’ambiguità del suo ruolo. Da una parte esso rappresenta un invito voyeuristico ad osservare dentro le case e le vetrine dei negozi. Dall’altra, il vetro specchiante permette a chi è all’interno degli edifici di vedere ciò che succede all’esterno da una posizione di vantaggio. Il padiglione è allo stesso tempo luogo da osservare e in cui essere protetti, di incontro e di separazione. Nel parco della villa l’opera dialoga con il tempietto neoclassico che sorge a poca distanza, esso stesso struttura aperta e chiusa, geometrica e simmetrica, luogo di osservazione e di incontro.
Alberto Garutti (Galbiate, 1948 – 2023). L’opera Come se la natura avesse lasciato fuori gli uomini è stata realizzata nel parco di Villa Manin già nel 2005, in occasione della mostra Luna Park – Arte fantastica. Abbiamo deciso di includerla nel percorso di Architetture trasparenti in quanto coerente con il tema dell’esposizione. L’opera si presenta come un’inferriata il cui perimetro riprende, rielaborandolo, il profilo dello stemma della famiglia Manin. L’inferriata delimita uno spazio inaccessibile agli uomini all’interno del quale erba, piante, arbusti crescono liberamente. L’opera può essere dunque interpretata come una gabbia al contrario: è condizionato e deve sottostare a regole umane ciò che si trova all’esterno, mentre l’interno rappresenta per le piante e gli animali uno spazio di libertà.
Patrick Tuttofuoco (Milano, 1974). Twister,come l’opera di Alberto Garutti, è stata realizzata nel 2005 in occasione di Luna Park – Arte fantastica. Anche in questo caso ci è sembrato appropriato includerla nel percorso della mostra dal momento che si tratta a tutti gli effetti di un’architettura trasparente. Twister è infattiun luogo abitabile, una successione di panchine incorniciate da una spirale colorata e aperta verso il parco. Twister definisce dunque uno spazio che, a dispetto dei colori sgargianti, si pone in continuità con la natura del parco e si propone allo stesso tempo come luogo di contemplazione e di incontro per i visitatori.