Questa sera abbiamo assistito allo spettacolo “Argo” in scena alla “Sala Bartoli”, con tre splendide interpreti tra cui la zia putativa del teatro triestino Ariella Reggio, accompagnata da Maria Ariis e Lucia Limonta, liberamente tratto dal libro di Maria Grazia Ciani: ”Storia di Argo”. Vogliamo innanzitutto fare un omaggio alla scrittrice, dove la narrazione è scarna, allusiva, sincera. Non si dilunga in descrizioni storiche dettagliate o documentaristiche, ma preferisce muoversi per suggestioni, lacune, silenzi: racconta le memorie di un bambino – più precisamente, la voce della protagonista da bambina – che vive le drammatiche vicende dell’Istria durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’arrivo delle truppe jugoslave, e infine l’esodo forzato degli italiani d’Istria, dove il cane della protagonista York, abbandonato per i drammatici sconvolgimenti della vita della sua padroncina, diviene una figura simbolica: rimane, aspetta come Argo, il cane di Ulisse che attende il ritorno del padrone. Questa piccola perla di meno di cento pagine ha avuto anche una post-prefazione di Claudio Magris che sottolinea il modo semplice ma realista della scrittura sui temi dell’assenza, della memoria e sul “ciò che non si può dire” che appare nel romanzo.

E come nel libro “Storia di Argo” che è un testo dal robusto impatto emotivo, qui la riscrittura ha espresso una pièce che si è trasmutata in una dolcissima, triste ma delicata metafora sulla vita, dove il viaggio stesso la rappresenta: non è la meta che conta – la morte – ma proprio la nostra esistenza, fatta di ricordi, magari inconfessabili o volutamente chiusi nel nostro cuore, e quando si arriva alla fatidica meta a cui tutti dobbiamo giungere, anche fermandosi solamente un’ora, un giorno in più a ricordare, può dare una felicità estrema:“ dopo, andiamo via dopo, domani, così avrò dimenticato tutto”. Così infatti, la Reggio chiude lo spettacolo in maniera perfetta.

Dal libro, lo spettacolo“Argo” ne prende ogni suo pregio e lo porta sulla scena, in modo ancor più forte, per l’espressività dell’adattamento stesso, grazie a Serena Sinigaglia, e grazie a Letizia Russo e le tre attrici ne fanno un piccolo capolavoro teatrale, raccontando quasi oniricamente. sopratutto gli ultimi passi di Vera, chiusa nell’Alzheimer”, che si è insinuato nelle vite di queste donne che non erano mai riuscite a rubare frammenti di felicità assieme, e la stessa malattia viene vista e vissuta da tre angolazioni diverse: la sua, quella della figlia e della nipote, ma sempre osservata come ancora un “cammino”, non una chiusura alla vita.

L’impianto drammaturgico si basa soprattutto sulla mastodontica, intramontabile, perfetta Ariella Reggio nei panni di Vera, madre di Beatrice, la figlia di 55 anni, Clara, figlia di Beatrice e sua nipote di 30 anni, interpretate da Maria Ariis e Lucia Limonta che sono state realmente mirabili per le loro interpretazioni.

Splendida e drammatica l’interpretazione della Reggio: Vera, una donna di 85 anni sofferente di Alzheimer, viene portata da Beatrice per l’ ultima volta nella sua Pola, da cui era fuggita da bambina: è l’innesco della trama. Argo, il cane della “bambina Vera”, abbandonato nella fuga, rimane nello spettacolo una figura simbolica che diviene memoria, fedeltà, l’attesa, la “casa” perduta. Questi rappresentano da una parte i sogni dissolti di una serena vita nella sua terra con i sui cari, dall’altra gli ultimi “passi” per “rivedere” il suo fedele amico.

Questa metafora permette alla pièce di non cadere nella cronaca esplicita ma di restare nel regno delle emozioni, dell’allusione, del “paesaggio interiore” dove la Reggio giganteggia per bravura: la sua presenza scenica, grazie alla sua esperienza, ma anche ai temi della pièce, rende credibile la fragilità imposta dalla vecchiaia e dall’Alzheimer, senza scadere nel patetico. Il suo corpo, la sua voce, la gestualità sono calibrati: nei momenti di lucidità, nei tentativi di ricongiungimento con il passato e nei momenti di smarrimento.

La Reggio porta con sé la “testimonianza” e la profondità di chi ha visto o conosce storie di un esodo, ma evita l’eloquio, sottostando piuttosto alla sua malattia e preferendo che il pubblico senta di condividerne le pieghe, le omissioni. Il suo apparente equilibrio emotivo riesce ad offrire una dimensione umana e complessa della figura di questa nonna: non solo dolore, ma anche attaccamento, legame con la terra, la memoria, desiderio di essere riconosciuta.

Una interpretazione magistrale di Ariella Reggio che non sminuisce l’attorialità delle sue due colleghe: semplicemente fantastiche e che hanno dato modo alla Reggio di chiudere la pièce in modo perfetto.

La regia di Serena Sinigaglia offre uno stile sobrio, sentimentale, riflessivo grazie anche alle luci di Roberta Faiolo che ne cura anche la musica, con le scene di Andrea Belli e i costumi di Valeria Bettella; tutto è studiato per suggerire piuttosto che spingere lo spettatore a comprendere la recitazione: non serve quindi l’abbondanza di oggetti o decorazioni: la tensione emotiva si regge su pochissimi ma significativi segni scenici e disegni luce.

Se Magris riporta nella prefazione del libro “Il tema della trasmissione della memoria e del trauma dell’esodo in questo adattamento è al centro”,la figlia Beatrice è l’input per ricostruire il ricordo degli ultimi anni della vita delle tre donne. La nipote Clara per voler quantomeno tentare di capire le intime sofferenze della madre e della nonna, vuole ascoltare per ricordare: Vera è la fonte ma resa fragile dalla malattia. Il confronto tra queste tre voci dà allo spettacolo una tensione “interiore”: non è solo il passato che pesa, ma il presente che lo filtra, lo accoglie o lo respinge. Proprio per questo il ritmo è dilatato: le pause, i silenzi, i vuoti essenziali quanto i dialoghi. Questo serve per far comprendere meglio la disorganicità del ricordo, la difficoltà di strutturare il dolore, di raccontare ciò che è stato vissuto come strappo, perdita, umiliazione. Non sempre il passato è definito, spesso è fosco, appena accennato, come la malattia di Vera: la presenza dell’Alzheimer amplifica questo effetto, la nonna non solo ricorda ma dimentica, alterna luci e ombre, e questo rende la memoria non lineare, almeno così appare agli occhi della figlia e nipote, mentre in realtà la nonna comprende ancora: sa che la fine del “viaggio” è vicina e finge di non conoscere la sua malattia. Questo ci offre uno sguardo diverso su come contrastare l’ultima parte che ognuno di noi dovrà affrontare: con fermezza, sincerità verso se stessi e verso i nostri cari, magari fermandosi, se si riesce a pensare al nostro passato, a quei pochi frammenti di felicità con serenità.

La regia della Sinigaglia e i testi della Russo riescono a conservare un tono proprio grazie alla misura, agli spazi vuoti, ai silenzi. La delicatezza è padrona, nonostante il dramma, cosa non facile ma riesce così a far parlare e “vivere” Vera, senza cadere nella retorica o nella polemica, grazie anche ai tre livelli generazionali presenti sul palco. Questo consente al pubblico di comprendere la stessa situazione su tre diversi piani spazio temporali anche della storia dell’esodo giuliano dalmato: il vissuto diretto e la sua trasmissione, il ricordo ereditato, l’ignoranza di esso che si tramuta in curiosità delle giovani generazioni.

Uno spettacolo assolutamente da non perdere anche per rendere il giusto omaggio a una grande nostra attrice: Ariella Reggio.

In replica alla “Sala Bartoli” nel mese di Novembre: Sabato15 ore 19,00, Domenica 16 ore 17.00, Martedì 18 ore 19,30, Mercoledì19 ore 21,00 Giovedì 20 ore 21.00, Venerdì 21 ore 19.30, Sabato 22 ore 19.00, Domenica 23 ore 17.00, Martedì 25 ore 19,30, Mercoledì 26 e Giovedì 27 ore 21,00, Venerdì 28 ore 19,30, Sabato 29 ore 19.00, Domenica 30 ore 17.00

ARGO”
Liberamente ispirato al romanzo “Storia di Argo” di Mariagrazia Ciani  Edizioni Marsilio

Testo originale Letizia Russo

Regia Serena Sinigaglia

Assistente alla regia Michele Luculano

Con Ariella Reggio, Maria Ariis, Lucia Limonta

Scene Andrea Belli

Costumi Valeria Bettella

Luci e suono Roberta Faiolo

Produzione Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia, Teatro Stabile di Bolzano