Da quando la relatività generale ci ha suggerito l’esistenza dei buchi neri, la comunità scientifica ha guardato con sospetto una loro caratteristica peculiare: la singolarità al centro, un punto — nascosto dall’orizzonte degli eventi — in cui le leggi della fisica che regolano tutto il resto dell’universo sembrano rompersi completamente. Da tempo si lavora per modelli alternativi, liberi da singolarità. Un nuovo paper pubblicato sul Journal of Cosmology and Astroparticle Physics JCAP, prodotto nell’ambito dell’Institute for Fundamental Physics of the Universe (IFPU) di Trieste, fa il punto sullo stato dell’arte in questo ambito, descrivendo due modelli alternativi, fornendo anche indicazioni per i test sperimentali e mostrando come questa ricerca possa essere utile anche per lo sviluppo di una teoria della gravità quantistica.


“Hic sunt leones”, commenta Stefano Liberati, fra gli autori del nuovo paper e direttore di IFPU. Il riferimento è alla singolarità ipotizzata al centro dei buchi neri standard, quelli previsti dalla soluzione delle equazioni di campo di Albert Einstein. Per capire meglio, è utile un breve excursus storico.

Nel 1915, Einstein pubblica il suo lavoro seminale sulla relatività generale. Solo un anno dopo, il fisico tedesco Karl Schwarzschild trova una soluzione esatta alle sue equazioni, che implica l’esistenza di oggetti estremi, oggi noti come buchi neri. Si tratta di corpi con una massa talmente concentrata da impedire a qualsiasi particella, fotoni compresi, di sfuggire alla loro attrazione gravitazionale — da qui il termine “neri”.

Fin da subito, però, emergono aspetti problematici e inizia un ampio dibattito che va avanti per decenni. Negli anni ’60 si capisce che la curvatura dello spaziotempo diventa realmente infinita al centro del buco nero: una singolarità dove le leggi della fisica cessano – o così sembra – di valere. Se questa fosse reale, e non solo un artefatto matematico, implicherebbe che in condizioni estreme la relatività generale fallisca. Di fatto, chiamare in causa la singolarità oggi è vista da buona parte della comunità scientifica come il corrispondente di alzare “bandiera bianca” e dire che, in fondo, non sappiamo davvero cosa accada al centro del buco nero.

Nonostante il dibattito sulla singolarità rimanga aperto, a partire dagli anni ’70 si sono accumulate sempre più evidenze scientifiche dell’esistenza dei buchi neri, culminate in importanti riconoscimenti come i Premi Nobel per la Fisica del 2017 e del 2020. Tra i momenti chiave si ricordano la prima rilevazione delle onde gravitazionali nel 2015 — che ha svelato la fusione di due buchi neri — e le immagini straordinarie ottenute dall’Event Horizon Telescope nel 2019 e nel 2022. Nessuna di queste osservazioni però ha ancora fornito risposte definitive sulla natura della singolarità.

Territori inconoscibili

Ed ecco, dunque, i “leones” evocati da Liberati: possiamo descrivere la fisica dei buchi neri solo fino a una certa distanza dal loro centro. Oltre quel limite, tutto diventa misterioso — una situazione inaccettabile per la scienza. Per questo, da tempo si cerca di superare il problema, immaginando un nuovo paradigma in cui la singolarità viene “curata” dagli effetti quantistici che la gravità deve necessariamente mostrare in quelle condizioni estreme. Questo avrebbe come conseguenza naturale dei modelli di buchi neri privi di singolarità, come quelli discussi nel lavoro di Liberati e colleghi.

Uno degli aspetti interessanti del nuovo paper riguarda anche il metodo di lavoro. Non si tratta di un articolo di ricerca di un singolo gruppo né di una rassegna: “È qualcosa in più”, spiega Liberati. “Nasce come un prodotto delle discussioni tra esperti del settore — tutti nomi riconosciuti nel campo, con competenze diverse tra teoria e fenomenologia, e un bel mix generazionale di ricercatori  junior e senior — riuniti in una conferenza IFPU dedicata a questo tema. Il paper è una sintesi delle idee emerse durante le sessioni, che pressappoco coincidono con i capitoli dell’articolo stesso.” Per Liberati, il valore aggiunto sta proprio nella discussione: “Su vari temi c’erano inizialmente visioni disomogenee e persone che hanno iniziatole sessioni con un’idea a volte ne sono uscite con un’opinione almeno in parte diversa”.

Due modelli alternativi “non singolari”

Durante quell’incontro sono stati delineati i tre modelli principali di buco nero descritti nel paper: il buco nero standard, previsto dalla relatività generale classica, con singolarità e orizzonte degli eventi; il buco nero regolare, che elimina la singolarità ma conserva l’orizzonte; e l’imitatore di buco nero (mimicker), che riproduce le caratteristiche esterne di un buco nero ma non possiede né singolarità né orizzonte degli eventi.

Nel paper, gli autori descrivono anche come si formano i buchi neri regolari e gli imitatori, e come potrebbero trasformarsi gli uni negli altri, ma soprattutto illustrano quali osservazioni sperimentali potrebbero, in futuro, permettere di distinguere questi oggetti dai buchi neri standard.

Le osservazioni raccolte finora, anche se importanti, non ci dicono tutto. Dal 2015 in poi abbiamo rilevato onde gravitazionali da fusioni di buchi neri e ottenuto immagini dell’ombra di due di essi, M87* e Sagittarius A*. Ma queste osservazioni riguardano solo l’esterno: non ci dicono nulla sulla presenza o meno di una singolarità centrale. “Ma non tutto è perduto,” spiega Liberati, “i buchi neri regolari, e tanto più gli imitatori, infatti non sono mai esattamente uguali ai buchi neri standard, anche fuori dall’orizzonte. Osservazioni che testino queste regioni possono, anche se indirettamente, dirci qualcosa sulla struttura interna di questi oggetti”.

Per fare questo sarà necessario misurare piccole deviazioni dalle predizioni della teoria di Einstein, usando strumenti sempre più sofisticati e canali di osservazione diversi. Per esempio, nel caso di imitatori, le immagini ad alta risoluzione dell’Event Horizon Telescope potranno rivelare dettagli nella luce piegata attorno all’oggetto, come anelli di luce più complessi del previsto. Le onde gravitazionali potrebbero mostrare segnali anomali, benché sottili, compatibili con la presenza di geometrie diverse da quella classica. La radiazione termica emessa dalla superficie di un oggetto privo di orizzonte — come un mimicker — potrebbe inoltre rappresentare un’ulteriore traccia.

Un futuro promettente

Le conoscenze attuali non sono ancora sufficienti per stabilire con certezza la natura precisa e l’entità delle perturbazioni che andrebbero osservate. Tuttavia, ci si aspetta che nei prossimi anni la comprensione teorica e la capacità di simulazione numerica facciano grandi passi avanti, fornendo le basi per costruire nuovi strumenti osservativi, progettati proprio sulla base delle previsioni dei modelli alternativi. Proprio come è accaduto per le onde gravitazionali, sarà la teoria a guidare l’osservazione, ma poi sarà l’osservazione a fare pulizia nella teoria, magari escludendo alcune delle ipotesi teoriche.

Il futuro di questi studi è particolarmente promettente: potrebbero infatti guidare lo sviluppo di una teoria della gravità quantistica, un ponte tra la relatività generale — che descrive l’universo su larga scala — e la meccanica quantistica, che regola il mondo dell’infinitamente piccolo. “Quello che si sta aprendo per gli studi sulla gravità,” conclude Liberati, “è un momento davvero entusiasmante. Siamo in un’epoca in cui davanti a noi si distende una vera e propria prateria ancora tutta da esplorare”.