
Docente di Storia del Teatro all’Università degli Studi di Trieste, Paolo Quazzolo è da anni una presenza centrale nel panorama teatrale cittadino e nazionale.
Dalla collaborazione con il Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia “Il Rossetti” ai progetti realizzati a “Miramare”, dal lavoro drammaturgico condiviso con Laura Pelaschiar alle conversazioni pubbliche con registi e interpreti, il suo percorso racconta un’idea di teatro come esperienza critica, di dialogo ravvicinato con il pubblico e profondamente contemporanea.
Quazzolo in questa intervista, ci offre nelle sue riflessioni sul rapporto tra studio e scena, sulla responsabilità culturale del teatro oggi e sul valore del confronto umano e intellettuale che alimenta ogni progetto artistico.

Il teatro attraversa la sua vita fin dagli inizi, ben prima della carriera accademica. Quando ha capito che il teatro non sarebbe stato soltanto un oggetto di studio, ma una vera e propria vocazione personale e intellettuale?
Ho avuto la fortuna di nascere in una famiglia che, sin da piccolissimo, mi ha educato al teatro, alla musica, all’arte e in generale all’amore per la cultura e le cose belle. La mia prima volta a teatro fu al “Verdi”, a soli quattro anni. Un po’ più tardi mi avvicinai alla prosa, assistendo al Politeama Rossetti alla memorabile edizione dei Rusteghi goldoniani diretta da Squarzina, con attori del calibro di Lina Volonghi e Omero Antonutti. Da allora non ho mai smesso di frequentare i teatri a Trieste, in Italia e all’estero. Di base sono un melomane – recentemente la prestigiosa rivista “Amadeus” mi ha voluto intervistare quale “abbonato storico” del Verdi, teatro che frequento regolarmente da 56 anni – ma naturalmente amo molto anche la prosa, la danza (soprattutto contemporanea) e tutte le altre forme di spettacolo “dal vivo”. Il teatro l’ho vissuto – e lo vivo – anche dall’altra parte del sipario. Da piccolo fui voce bianca in numerosi allestimenti del Teatro Verdi; poi, durante gli anni universitari, feci la comparsa nello stesso teatro. In seguito sono stato aiuto regista di Giorgio Pressburgher, sono stato tra i fondatori degli Artisti Associati (oggi una delle maggiori compagnie professioniste sorte nel nostro territorio e operanti a livello nazionale), ho lavorato in ambito organizzativo-culturale al Teatro Stabile “La Contrada” e ora collaboro allo Stabile del Friuli Venezia Giulia sia come drammaturgo sia alla realizzazione di numerose iniziative culturali. Quindi posso dire che il teatro è stato per me prima una vocazione personale e solo in seguito, da docente universitario, è divenuto oggetto di studio.
Nel suo lavoro emerge con chiarezza un’idea di teatro come esperienza viva e condivisa. In che modo la formazione universitaria ha contribuito a rafforzare e non a irrigidire questo rapporto diretto con la scena?
Mi occupo di una disciplina, la Storia del teatro, che per sua natura richiede una costante interazione con il mondo dello spettacolo. Non è pensabile insegnare Storia del teatro senza portare gli studenti a vedere uno spettacolo, senza offrire loro un’esperienza diretta e critica di quello che è l’oggetto di studio. Per questo motivo, da oltre trent’anni, realizzo stage e laboratori in collaborazione con tutti i teatri triestini, per introdurre i miei studenti al mondo dello spettacolo, per far vedere loro come funzione l’articolata macchina teatrale, per far capire quanto lavoro e quali professionalità si celino dietro una rappresentazione. Da anni porto gruppi di studenti ad assistere a tutto il percorso realizzativo di uno spettacolo (dalle prime prove di sala alla prova generale), faccio loro visitare i laboratori scenografici e le sartorie, li faccio incontrare con registi e attori, li faccio assistere ai montaggi delle scenografie e alle prove luci… In realtà l’aver voluto unire l’aspetto teorico a quello pratico deriva, più che dall’ambito universitario, proprio dalla mia esperienza personale in palcoscenico.

Da giovane lei si è confrontato anche con la scrittura critica e giornalistica sul teatro. Quanto quell’esperienza ha inciso sul suo modo di osservare gli spettacoli e di dialogare oggi con registi, attori e drammaturghi?
Per alcuni anni ho svolto l’attività di critico teatrale per un quotidiano di Trieste: è stata un’esperienza molto importante perché mi ha consentito di assistere a un numero davvero molto elevato di spettacoli e di confrontarmi con autori, testi, registi e interpreti di formazione e livello diverso. Naturalmente le conoscenze acquisite con lo studio mi hanno aiutato a “leggere” meglio gli spettacoli e soprattutto a imparare che è importante vedere spettacolo belli, ma è altrettanto formativo assistere a spettacoli non riusciti: solo così riesci ad apprezzare appieno i grandi capolavori e le interpretazioni di alto livello. Perché anche le cose meno riuscite sono in grado di insegnare qualcosa.
Pensa che l’esercizio della critica, soprattutto agli inizi, possa essere una vera scuola per chi poi si dedica alla drammaturgia e alla storia del teatro?
Assolutamente sì perché, ripeto, solo vedendo decine di spettacoli e confrontandosi con innumerevoli interpretazioni riesci a sviluppare il senso critico, la conoscenza e la capacità di distinguere ciò che è bello da ciò che non lo è. Quest’ultima affermazione potrà forse sembrare banale, ma non è così: vedo che oggi una fetta di pubblico tende ad accettare tutto, spesso applaude spettacoli modesti con la stessa intensità con cui saluta grandi interpretazioni; l’attore televisivo che in palcoscenico offre prove modeste e deludenti viene acclamato solo perché è un volto noto, indipendentemente dalle sue qualità artistiche…

La collaborazione con la Professoressa Laura Pelaschiar è ormai una costante del suo percorso teatrale. Come nasce il vostro lavoro a quattro mani e quali sono le dinamiche che guidano la costruzione condivisa dei testi per la scena?
Laura è tra le mie migliori colleghe: assieme condividiamo progetti di ricerca, ideali estetici, “battaglie” accademiche. Per lei, studiosa di Joyce e di Shakespeare, e per me, studioso di teatro, è stato spontaneo incontrarsi e sentirsi subito in piena sintonia. Abbiamo iniziato ideando quello che noi chiamiamo il “Letteraturismo”, ossia una forma di studio dello spazio urbano e delle narrazioni che sfocia nella realizzazione di tour performativi attraverso la città. Il progetto venne subito accolto da Paolo Valerio, direttore del Teatro Stabile, che ci mise a disposizione attori e professionalità tecniche per realizzare alcuni “narratur” che riscossero immediato successo. L’ultimo realizzato è stato quello in occasione del centenario della pubblicazione della Coscienza di Zeno di Svevo, il cui successo è stato tale da richiederne il riallestimento per tre stagioni consecutive. Ormai da anni facciamo parte del comitato scientifico del “Bloomsday”, la manifestazione che ogni anno è dedicata all’Ulisse di Joyce. Per questa occasione organizziamo, sempre in collaborazione con lo Stabile, delle mises en espace dedicate, di volta in volta, a un episodio del romanzo. È per noi anche l’occasione di cimentarci direttamente con il palcoscenico, dal momento che ci divertiamo ad assolvere la funzione di narratori – oltre che di registi – dello spettacolo.Scrivere a quattro mani significa innanzitutto avere una forte sintonia di base. Ma anche una altrettanto solida conoscenza di autori e di testi, così come delle tecniche di playwriting. Poi il lavoro viene spontaneo, gli spunti e le idee si intrecciano, si scrivono di getto le battute; poi le scene vengono riviste, corrette, limate fino ad ottenere un prodotto che ci soddisfi.
Nei progetti che firmate insieme, la letteratura diventa materia teatrale senza perdere complessità. Qual è il punto di equilibrio che cercate tra rigore filologico e libertà drammaturgica?
Quando si scrive per la scena si fa un’operazione completamente diversa sia dalla scrittura narrativa sia da quella saggistica. La parola d’ordine è comunicare in modo chiaro e immediato, raccontare una storia senza essere didascalici, tenere sempre presente che, come affermava Aristotele, il teatro è soprattutto azione e quindi i personaggi sulla scena devono sempre agire, muoversi, fare qualcosa. Naturalmente se si parte della letteratura è necessario conoscere molto bene il prodotto su cui si lavora, rispettarlo fin dove possibile, ma anche prendersi delle libertà laddove la scena consente di fare ciò che nella pagina letteraria risulta impossibile.

In “SvevoJoyce#ZenoBloom” avete messo in dialogo due autori centrali del Novecento, profondamente legati a Trieste ma così estremamente diversi all’apparenza: Svevo e Joyce”. Quali difficoltà avete incontrato nel confrontarvi teatralmente con figure così stratificate e simboliche?
In verità la conoscenza che ciascuno di noi aveva dei due autori e delle loro opere, ci ha consentito di muoverci con una certa agilità. Questo testo drammatico rappresenta il caso esemplare di come si possa operare da un lato con rigore filologico e dall’altro con assoluta libertà: quando erano in scena Svevo e Joyce abbiamo rispettato in modo molto rigoroso non solo gli eventi delle loro vite: anche le affermazioni messe in bocca ai due letterati trovano sempre riscontro nelle loro opere, negli epistolari, nelle testimonianze dell’epoca; viceversa nel momento in cui facevamo agire i loro due personaggi, Zeno e Bloom, ci siamo presi numerose libertà, pur ricorrendo agli episodi che li vedono protagonisti nelle due opere narrative. Lo si fa seguendo le regole della scrittura drammaturgica, tenendo sempre presente che scrivere per la scena è totalmente diverso che scrivere per la pagina. Un romanzo o un racconto sono solo narrazione. Un testo drammatico deve raccontare una storia ma lo fa senza la mediazione dell’autore: sono gli stessi personaggi che agendo si pongono allo spettatore e si raccontano. Svevo e Joyce sono stati trattati al pari di un personaggio teatrale: raccontavano se stessi agendo, discutendo, contraddicendosi, entrando in conflitto. E così facendo, finivano per esporre la loro teoria letteraria, i loro sentimenti profondi, la loro storia umana e artistica.
I progetti shakespeariani realizzati a “Miramare”, come “Shakespeare in the Park” del 2022, hanno trasformato un luogo storico in uno spazio teatrale diffuso. Qual è stato il primo pensiero, o il primo timore, nell’affrontare Shakespeare in un contesto naturale così fortemente connotato?
Personalmente penso che farsi assalire da timori, dubbi, indecisioni sia il modo peggiore per affrontare le sfide. Nostro “complice” è stato proprio lo stesso Shakespeare, autore immenso, che nelle sue opere ha saputo raccontare l’intero universo umano. Non è stato quindi difficile collocare le opere del Bardo all’interno di un luogo incantato qual è il Parco di Miramare, che nei suoi molteplici scorci si è prestato in modo quasi naturale a divenire lo sfondo ideale delle opere che di volta in volta abbiamo deciso di proporre al pubblico.

Luoghi come “Miramare” sembrano ideali, quasi perfetti, per un teatro notturno e itinerante. Quali difficoltà concrete avete dovuto affrontare per trasformare questa apparente perfezione in un dispositivo scenico efficace?
Va ricordato che l’idea di portare Shakespeare a Miramare è stata di Paolo Valerio. Dopo le prime due edizioni, Valerio ha chiesto a Laura e a me di curare la drammaturgia dello spettacolo e, l’anno scorso ha voluto anche affidarci la regia. Il salto in avanti è avvenuto nel momento in cui, dovendo curare la drammaturgia dello spettacolo, abbiamo voluto trovare un filo conduttore che percorresse tutta la rappresentazione, in modo tale che le singole scene, pur nella loro autonomia, fossero tuttavia tra loro collegate da un sottile filo rosso. Per esempio, l’edizione della scorsa estate ha proposto un percorso attraverso contrasti amorosi, indagando coppie che scoppiano, amori fatali, attrazioni irresistibili. Poi l’aspetto più delicato è far funzionare il complesso meccanismo della rappresentazione, con sei gruppi che si devono spostare contemporaneamente lungo i percorsi, scene che devono avere tutte la medesima durata, tempi di percorrenza che devono sempre coincidere. Il pubblico non se ne accorge, ma durante la rappresentazione al fianco delle “guide” c’è un folto gruppo di persone che si occupano di controllare le tempistiche, di far rallentare o accelerare gli spostamenti dei gruppi, in modo tale che, alla fine dello spettacolo, tutti possano convergere contemporaneamente nel piazzale davanti al Castello per il congedo finale.
Alcuni momenti legati al “Sogno di una notte di mezza estate” hanno colpito particolarmente il pubblico per la loro forza evocativa, sembrava di essere nei luoghi descritti dal Bardo. Dal punto di vista drammaturgico, come si lavora su un testo così onirico affinché dialoghi, luoghi di fantasia diventino spazio reale senza perdere la sua dimensione poetica?
In realtà il merito va ascritto in gran parte a Shakespeare, che ha creato delle macchine teatrali perfette. Il nostro compito è quello di ideare un percorso tematico, selezionare le opere e le scene più adatte, fornire delle traduzioni nuove ed efficaci, intervenire talora sui testi per adattarli alla situazione particolare di una recita all’aperto, trovare infine le “location” più adatte ed vocative. Il bosco per il Sogno è stato una scelta obbligata e spontanea e l’incanto del Parco di Miramare ha completato la magia.
Le chiacchierate introduttive agli spettacoli sono diventate parte integrante dell’esperienza teatrale al Rossetti. Che valore attribuisce a questi momenti di dialogo nel preparare lo sguardo dello spettatore?
Credo siano fondamentali. È da oltre trent’anni che curo iniziative del genere (in precedenza lo feci anche per il Teatro Stabile “La Contrada”) e sono convinto che poter dialogare con attori, registi e, quando possibile, con gli autori, sia un’occasione davvero preziosa. È il modo migliore per scendere nelle pieghe dell’interpretazione, per scoprire le difficoltà che pone la messinscena di un testo, per capire come un attore riesca a calarsi nel proprio ruolo.
In conversazioni pubbliche, come quella con Filippo Dini in occasione de “I parenti terribili”, il confronto sembra proseguire idealmente lo spettacolo stesso. Quanto è importante, per lei, creare uno spazio condiviso tra pensiero critico e pratica scenica?
È un contributo importante per la piena comprensione dello spettacolo. Spesso assistere a una sola replica non consente di cogliere tutte quelle sfumature che in un confronto con gli attori e il regista possono emergere in modo chiaro. Nel corso di queste presentazioni lascio sempre spazio anche al pubblico affinché intervenga con delle domande, per chiedere spiegazioni o esporre i propri dubbi: sono i momenti più belli, perché è proprio qui che si apre il vero confronto tra gli spettatori e gli artefici dello spettacolo.
In che modo queste chiacchierate, pensate come dialoghi e non come lezioni, incidono sulla relazione tra pubblico e opera teatrale?
Se devo giudicare dal successo che queste iniziative continuano ad avere, l’effetto è ampiamente positivo. Va da sé che la presenza di un attore famoso funge da forte richiamo e spesso abbiamo avuto il tutto esaurito e persone che purtroppo non sono riuscite ad entrare in sala. Ma è altrettanto vero che abbiamo avuto incontri affollatissimi anche con interpreti meno celebri e su testi furi dal repertorio. Penso a esempio alla presentazione che ho fatto assieme a Paolo Valerio di Pessoa, spettacolo sicuramente molto particolare e di non semplice fruizione, di fronte a una sala esaurita e a un pubblico affascinato.
Dal suo punto di vista, questi incontri possono essere considerati una nuova forma di mediazione culturale teatrale?
Sicuramente. È ormai assodato che il teatro non può più, come un tempo, aprire le proprie porte solo in occasione delle rappresentazioni serali. Il teatro è una cittadella della cultura che oltre agli spettacoli – che restano senza dubbio l’elemento centrale dell’attività – devono offrire alla comunità numerose altre occasioni culturali e di incontro.
Mi permetto una nota personale: la mia amicizia con la Professoressa Cristina Benussi mi porta a chiederle se, anche in modo informale o indiretto, il confronto con lei abbia avuto un ruolo nel suo lavoro teatrale, oppure se i vostri percorsi si siano mantenuti su traiettorie autonome. Quanto conta, secondo lei, il dialogo umano e intellettuale tra studiosi nella nascita di progetti artistici?
Premesso che il dialogo tra studiosi è fondamentale non solo per la nascita di progetti artistici, ma anche per l’ideazione e la realizzazione di progetti di ricerca scientifica, con l’amica e collega Cristina Benussi, in ambito strettamente teatrale, non abbiamo mai avuto occasioni di incontro. Cristina, che è una raffinata studiosa della letteratura contemporanea italiana, ha scritto anche una monografia sul teatro di Svevo, ma lo ha fatto analizzandone soprattutto la dimensione testuale. Io studio parimenti il teatro di Svevo, ma lo faccio attraverso la dimensione scenica. Viceversa, con Cristina abbiamo numerose altre occasioni di incontro culturale e di elaborazione di comuni progetti, non solo attraverso convegni, tavole rotonde e dibattiti ove partecipiamo assieme, ma soprattutto all’interno del Circolo della Cultura e delle Arti, ove siamo lei Direttore della Sezione Lettere e io Direttore della Sezione Spettacolo.
Guardando al panorama teatrale contemporaneo, quali trasformazioni le sembrano più significative nel rapporto tra teatro, luoghi e comunità?
Il teatro, che è un’arte che ancora oggi conserva una forte dimensione artigianale, non è tuttavia del tutto immune dai cambiamenti tecnologici: basta vedere non solo gli enormi passi in avanti che ha fatto negli ultimi decenni l’illuminotecnica, ma anche la scenografia, con l’utilizzo di creazioni video, con l’impiego di strutture in movimento e cambi a vista che rendono lo spettacolo sempre più dinamico. Dal punto di vista dei contenuti, il teatro da sempre è lo specchio della società e, pur raccontando storie che possono sembrare lontane nello spazio e nel tempo, in verità parla sempre di noi e della nostra contemporaneità. Molta drammaturgia dei nostri giorni ha sentito in modo prepotente la necessità di riportare il teatro alle sue antiche funzioni civili di denuncia, costringendo lo spettatore a riflettere e meditare su temi talora anche molto scomodi. E, nel rispondere a questa domanda, non è possibile non pensare agli anni del covid, quando il teatro dovette necessariamente fermarsi: molti pensarono che l’arte della scena fosse giunta al suo tramonto, sostituita da spettacoli in video. Ma così non è stato: non appena possibile, le sale teatrali si sono immediatamente ripopolate, dimostrando una volta in più che il teatro, unica forma d’arte che avviene dal vivo, non morirà mai, proprio per questa forza di coinvolgimento emotivo e intellettuale che nessun’altra forma di spettacolo possiede.
Su cosa sta lavorando ora, o su cosa le piacerebbe lavorare nei prossimi anni, che rappresenti un nuovo passo nel suo percorso tra ricerca, drammaturgia e scena?
Per chi insegna teatro, non è possibile disgiungere il lavoro di ricerca scientifica dal percorso in ambito drammaturgico e registico. Sul piano della ricerca sto portando a termine un importante progetto PRIN di cui sono responsabile nazionale, dedicato allo studio e alla catalogazione dei teatri all’aperto in Italia. Inoltre a gennaio uscirà l’edizione critica del Giustino, uno dei primi drammi di Carlo Goldoni, che ho curato per l’Edizione Nazionale delle opere del commediografo veneziano. In ambito teatrale partecipo a un progetto di ricerca con un gruppo di genetisti dell’Università degli Studi di Trieste dedicato all’iconodia.